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saranno le Pmi a tirarci fuori dalla crisi ?

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Messaggio  Carlo Mer 21 Ott 2009, 19:35

Saranno le Pmi “piccole e brutte” a tirarci fuori dalla crisi ?

La guerra dei dati continua. Crollo degli ordinativi dell’industria, ha detto ieri l’Istat. I dati positivi di Confindustria e dell’Ocse sulla nostra produzione industriale non dicevano invece che la ripresa c’è? «Il sistema italiano - dice l’economista Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison - ha dimostrato finora di saper produrre quello che gli serve per competere sul mercato internazionale». Eppure, non tutti sono d’accordo. Sul Corriere del 13 ottobre il manager Roger Abravanel ha scritto che l’Italia ha bisogno di un new deal e che «la soluzione sta nel trasformare la struttura produttiva del paese in un’economia di servizi ad altra produttività». E la nostra impresa? Colpevole. «“Piccolo è bruttissimo” perché molte piccole imprese italiane in realtà competono con quelle più grandi grazie unicamente all’evasione fiscale e al mancato rispetto delle regole».

Dobbiamo davvero stravolgere la nostra struttura produttiva per diventare competitivi?

Non credo proprio. Capisco bene l’importanza di servizi concorrenziali e competitivi, ma fondare la competitività sulla liberalizzazione di taxi e aerei mi sembra un’utopia gigantesca. La realtà ha dimostrato che non è sufficiente, per avere un ruolo nell’economia mondiale, avere una società basata esclusivamente sui servizi. Bisogna produrre anche - e soprattutto - beni reali.

Non negherà che la concorrenza produce servizi più virtuosi, abbassa i costi per il cittadino e aumenta la competitività del sistema…

Affatto. In quella che Eurostat chiama economia non finanziaria si collocano servizi come i trasporti, la logistica, la rete delle telecomunicazioni, e il cittadino è il primo a sperimentare i benefici di un mercato più liberalizzato in questi settori. Ma i servizi, per quanto funzionali, devono integrarsi in un sistema economico che produce altri tipi di ricchezza. Quella dei beni reali, appunto. Manifattura in testa.

Perché sarebbero le Pmi secondo alcuni a tarpare le ali del nostro sviluppo?

Il presupposto di molte analisi - anche di quelle per le quali il nostro sistema di Pmi è un’anomalia inspiegabile e dunque “colpevole” - è che per crescere di più occorre fare più servizi. Ma la realtà degli ultimi dieci anni ha mostrato che se altri crescevano di più, non è perché facevano più liberalizzazioni, ma perché avevano inondato di finanza creativa e di speculazione immobiliare i loro paesi, spingendo i cittadini ad indebitarsi.
È la storia dell’ultimo anno di crisi economica.

Ma certo. Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda e Irlanda sono cresciuti più degli altri per il semplice motivo che hanno spinto sui debiti privati al punto tale che tra il ’95 e il 2007 i debiti delle famiglie inglesi sono cresciuti più di quelli di tutte le famiglie di Germania, Italia, Francia ed Austria messe insieme. Attualmente la bilancia commerciale inglese è quella con il più forte passivo in Europa.

Torniamo alle Pmi. Esiste una “questione dimensionale” da mettere al centro di una politica industriale, oppure far questo vuol dire togliere spazio alla cosiddetta evoluzione “darwiniana” e al libero mercato?

Prima una parola sulla politica industriale. Penso che l’economia non abbia bisogno di essere irreggimentata in maniera forzata. Le grandi imprese ormai in Italia sono quelle che emanano dagli ex monopolisti delle infrastrutture, energetici e delle telecomunicazioni. Aggiungiamo la Fiat, poi c’è il vuoto. Ma questo scenario è il risultato di un lungo processo che ha visto il fallimento di colossi come Montecatini, Montedison e Olivetti. Quel che vediamo sulla scena sono storie specifiche di alcune aziende e non soltanto errori o scelte sbagliate della nostra politica.

Carlo

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