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Messaggio  Admin Gio 15 Ott 2009, 18:24

la recensione del film di Danis Tanovic

1988: Mark e David sono due fotoreporter, amici per la pelle, che partono per il Kurdistan per raccontare la guerriglia della popolazione curda contro gli iracheni. Dopo un mese, Mark vorrebbe rimanere per seguire un’offensiva, l’amico tornare a casa per assistere alla nascita di suo figlio. I due si separano, ma Mark rimane vittima di un’esplosione: curato nell’ospedale improvvisato chiamato Triage che aveva fotografato estensivamente nei giorni precedenti, riesce a tornare a casa. Ma lì scoprirà che David invece non ha ancora fatto ritorno, e vedrà peggiorare una sorta di paralisi che pare di natura psicosomatica. Ad aiutarlo, il nonno di sua moglie Elena, che aveva trattato numerosi reduci franchisti della Guerra Civile Spagnola per stress post-traumatico.

I temi che Denis Tanovic affronta in Triage, adattamento dell’omonimo romanzo del corrispondente di guerra americano Scott Anderson, sono forti e importanti sia da un punto di vista morale che da quello puramente cinematografico. Da sempre, infatti, la figura del corrispondente di guerra (fotografico o meno) ha un fascino che il grande schermo sfrutta ed amplifica, sia a scopi spettacolari che come chiave narrativa per raccontare gli orrori e le crudeltà dei conflitti, le ferite fisiche ma soprattutto psicologiche che lasciano in chi vi viene a contatto in forma attiva o passiva che sia: basti pensare a titoli come Salvador di Oliver Stone o l’ancora più riuscito (e sottovalutato) Sotto tiro di Roger Spottiswoode.

Con il suo terzo film, il regista bosniaco tenta d’inserirsi in questo solco, e di ampliarlo cercando di privilegiare l’aspetto psicologico rispetto a quello puramente bellico-avventuroso. E non a caso per i suoi secondi due terzi il film racconta – pur con occasionali flashback – di un Mark rientrato in casa ma non ancora in sé stesso. Operazione, questa, interessante ma rischiosa se non si possiede quella raffinatezza e quella sensibilità di racconto delle quali Tanovic non appare particolarmente dotato.

Triage ha magari dalla sua storia e temi - per quanto lontani dall’originalità, soprattutto riguardo al dilemma etico e morale insito nell’assistere e raccontare un conflitto o la sofferenza senza intervenirvi - ma è inevitabilmente zavorrato da una regia che oscilla tra anonima piattezza e momenti dove il pathos si cerca attraverso l’immagine retorica, fotografica o verbale che sia.

Data la prevedibilità del “twist” finale, si sarebbe dovuto lavorare più in profondità sul personaggio interpretato da un Colin Farrell che, ancora una volta, dimostra di aver bisogno di un regista in grado di dirigerlo attentamente e severamente, per dare il meglio di sé. E invece ci si affida solo agli sguardi sofferenti del protagonista (circondato da comprimari ai limiti della monodimensionalità) o al flashback ad effetto per cercare di raccontare quel dolore, quel conflitto interiore, quel malessere che si comprendono ma che non si “sentono”.

E del tutto accessoria e appena abbozzata è la tematica della redenzione dai propri errori che il personaggio di un Christopher Lee rigidissimo ed il suo operato portano con loro.

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